Di Caterina Civallero

Quando ero bambina amavo sfogliare le fotografie di famiglia. I miei genitori le tenevano nel mobiletto del televisore. Qualcosa mi spinse a sottrarne qualcuna e iniziai a creare un mio personale album dei ricordi in cui commentavo e datavo le immagini con note aggiunte a mano.

Anni dopo compresi l’importanza di quelle appropriazioni: durante la separazione dei miei genitori molte fotografie andarono perse e chiedere loro di poter sfogliare ciò che era sfuggito a gesti di rancore e ai traslochi era impensabile.

Quando si soffre per un abbandono sfogliare le fotografie resta un tabù.

Così, la sera nella mia camera, sfogliavo il mio album segreto e andavo fiera di quel trailer che avevo avuto l’ardire di realizzare, poiché manteneva vivi momenti di cui non avremmo mai più potuto parlare liberamente.

Inconsapevolmente, questi furono i miei primi passi psicogenealogici.

Figli della terra, il canto di Nosy Be, il mio nuovo libro in uscita in questi giorni, nasce dalla stessa spinta energetica, che, negli anni, mi ha orientata verso un lavoro di ricerca e di analisi a favore delle origini dell’uomo. L’amore per l’Africa è nato come implicita conseguenza e una fervente innata immaginazione mi ha permesso di ricamare attorno alle esperienze vissute e ai racconti raccolti viaggiando. Quasi senza accorgermene, ha preso vita una raccolta di racconti che hanno come comune denominatore Nosy Be, la favolosa perla del Madagascar, isola nota ai turisti che vogliono iniziare a esplorare la Grande Terre.

I personaggi dei miei dodici racconti, numero simbolico che fa pensare ai mesi dell’anno, ma che in questo caso ha una valenza più ampia, vivono a stretto contatto con l’isola di Nosy Be, o perché ci abitano, o perché l’hanno scelta come rifugio.

Le scelte non sono mai casuali. Un’isola rappresenta sempre un grumo di terra sulla quale sentirsi a casa in attesa di tornarci davvero. Lo sanno bene gli isolani di tutto il mondo, che solitamente difendono il proprio territorio marcando severamente la differenza di spazi e culture rispetto alla terra ferma.

Nella rappresentazione onirica l’isola è sempre vissuta come rifugio in cui trovare pace, spesso associata all’idea del paradiso terrestre. E’ comune dire: “me ne vado –mi ritiro- su un’isola deserta” quando si è all’apice di un periodo faticoso, e l’affermazione è spropositata poiché la sopravvivenza in simili condizioni è tutt’altro che pacifica.

L’isola resta comunque, nell’inconscio immaginario, un luogo primordiale in cui ritrovare conforto, somiglia all’utero materno e ancora una volta ci ritroviamo a esplorare questo luogo magico da cui tutto origina: la nostra prima culla di vita emette un suono che ricercheremo sempre nella vita, e sarà come il “richiamo della foresta” capace di ricondurci alla nostra vera essenza. Che si voglia o no l’isola rappresenta, per simbolo, il nostro archetipo fondamentale a cui abbiamo necessità di fare ritorno per riconnetterci e recuperare la nostra esistenza.

Figli della terra, Il canto di Nosy Be è strutturato in dodici capitoli, dodici come gli dei dell’Olimpo e gli Apostoli, i Titani e le Titanidi, come i segni dello Zodiaco, i mesi dell’anno, le ore del giorno, le fatiche di Ercole, i Cavalieri della Tavola Rotonda, i Paladini di Carlo Magno. Numero sacro per eccellenza, la cui riduzione porta al numero tre, numero della perfezione per antonomasia, questo potente numero indica sia la prova iniziatica fondamentale che il ciclo concluso: nella maggior parte delle società che praticano ancora il rito iniziatico dodici è l’età secondo cui un soggetto entra nella fascia adulta.

Anche per la scienza medica dodici è riconosciuto come l’età dello sviluppo sessuale, e il passaggio a questa epoca è scandito, per le femmine, dal primo mestruo e, per i maschi, dalla prima eiaculazione spontanea.

Figli della terra contiene, anche, tutto questo, e diviene tacito contenitore di solenni esperienze umane.

Ogni racconto, come un’onda cresce e si infrange a riva. Ogni narrazione conduce a sperimentare un territorio psichico circoscritto, in cui la danza fra lo spazio interno ed esterno si accorda su note miti e armoniose.

Figli della terra è pertanto un’esperienza sanificatrice capace attraverso l’emozione di esaltare il valore delle nostre origini.

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