La correzione di un ottimo esercizio mi ha permesso di comprendere l’opportunità di pubblicare questo microarticolo, dedicato a chi frequenta i nostri corsi.
Come in tutte le arti e i mestieri, anche nel caso della scrittura può avvenire un fenomeno controintuitivo: si sbaglia meno agli inizi che quando si possiede già una certa esperienza. Eh, sì, perché solitamente è proprio quando si pensa di esser padroni dei propri “attrezzi” che si abbassa la guardia, col rischio di far danni o di farsi male: fortunatamente nella scrittura al massimo si può sbagliare.
Attenzione però, che mentre gli “errori” del principiante riguardano quasi sempre la grammatica, l’ortografia, la punteggiatura, la padronanza del lessico, o la sintassi, quelli di chi è più “scafato” non sono più veri e propri errori, ma piuttosto inconvenienti a volte innocui, a volte problematici, poiché possono richiedere di rivedere l’intera stesura. Non si tratta, come di primo acchito si potrebbe pensare, di presunzione, arroganza, o eccessiva sicurezza di sé: molto più banalmente si tratta invece di quel non so ché privo di una definizione formale, descrivibile meglio con la metafora del tombino; dopo anni che tutti i giorni percorro sempre la stessa strada, da buon artista non ho più motivo di guardare per terra e osservo la bellezza dell’architettura delle case, la leggiadria della forma delle nuvole, i variopinti fiori alle finestre… finché un bel giorno un operaio maldestro dimentica di transennare un tombino lasciato aperto e ci casco dentro come un pollo!
Come potete notare non si tratta di distrazione (non solo, almeno) o di presunzione: il fatto è che, per così dire, siamo “ascesi” a un livello superiore di consapevolezza, dando per scontato che la conoscenza acquisita sia immutabile, ma soprattutto omettendo di considerare che l’ascesa è solo nostra, non necessariamente di ciò o di chi ci circonda.
Esistono molti di questi “tombini” metaforici, che tratteremo di volta in volta, quando si presenteranno; oggi ci occupiamo del soggetto fantasma ambiguo. Siccome un esempio vale più di mille parole, vi copio qui di seguito alcuni stralci dell’esercizio sopra accennato e del mio commento: l’autore non me ne voglia, sappia invece che è possibile incappare in questi inconvenienti solo quando si è già bravi scrittori; prima, con l’attenzione che si è costretti a porre a grammatica e comprensibilità, sarebbe (quasi) impossibile.
«Con un tonfo cadde improvvisamente ai suoi piedi.
G. la guardò incredula con compassione e odio; il suo pensiero frugò nella memoria senza trovare traccia di un’emozione così forte: la rabbia. Già da un po’ di tempo attraversava un periodo complicato: ogni giorno una sgradevole novità le veniva servita su un piatto d’argento. [omissis]», così iniziava l’esercizio nella sua prima stesura. Poi proseguiva con lo stesso metodo, sottintendendo l’oggetto (non il soggetto, in questo specifico caso, perché il soggetto è lei, il nome che ho abbreviato per ragioni di privacy) e creando così efficacemente un vago senso di mistero e un’atmosfera particolare. Però, noterete anche voi che non è chiaro chi o cosa cadde, e fece poi tutto il resto: una persona, un oggetto, la rabbia citata nella seconda frase? Noi che conosciamo il proposito dell’esercizio sappiamo che si tratta, per l’appunto, della rabbia, ma un ipotetico lettore inconsapevole, senza un titolo o un preambolo che lo specifichi, rimarrebbe disorientato dall’ambiguità della forma, che non consente di individuare subito a chi o cosa si riferisce l’oggetto. Gli abbiamo perciò segnalato il problema.
L’autore, quindi, ha rivisto il proprio testo disambiguandolo, e spiegandoci che aveva volutamente scritto in cotal modo per creare un certo pathos, concludendo poi di esser stato “presuntuoso”: ma niente affatto, ha solo applicato bene una tecnica narrativa avanzata in un esercizio, che per forza di cose è dimensionalmente limitato. Ecco infatti parte del mio secondo commento, in cui gli spiego che non si è trattato di presunzione, tantomeno di un errore nel senso comune del termine, bensì del proverbiale tombino.
«A mio avviso è perfetto. Riguardo alla precedente correzione, è tutt’altro che “presunzione”: il fatto è che sintatticamente andava benissimo, ma quell’uso della sintassi rendeva ambiguo il senso del soggetto. Sostanzialmente se fosse stato chiaro dal titolo o da qualche preambolo che si parlava di rabbia (e noi lo sapevamo perché era il tema dell’esercizio), avrebbe potuto andare bene: il lettore invece, inconsapevole, sarebbe stato spiazzato perché non avrebbe avuto nessun riferimento per intuirlo. In effetti il soggetto o l’oggetto di un periodo possono anche essere sottintesi o persino omessi, se lo si fa a ragion veduta e nel modo giusto. Nel tuo caso il pathos c’era eccome, la sintassi era perfetta e il senso logico comprensibile, ma la “costruzione” lasciava una evidente ambiguità nell’intuire a chi o cosa ti riferivi. È molto bella ad esempio la metafora del tonfo, ma è lapalissiano che chi non sa di cosa stiamo parlando pensa subito a un corpo o a un oggetto materiale, e questo lo spiazza nella comprensione in tutti i passi successivi.
Non si tratta quindi di presunzione da parte tua, che hai scritto un lavoro egregio, bensì del tipico “tombino aperto” in cui spesso incappa chi sa già scrivere bene: il trucco è tenere costantemente presente che il lettore estemporaneo non è telepatico, anzi è “ignorante” (nel senso buono del termine); infatti ignora tutto: ignora il nostro stile, almeno all’inizio; ignora cosa leggerà nei passi successivi; ignora gli antefatti e le “condizioni al contorno”, e via dicendo. La bravura sta, se si vuole renderlo edotto in un secondo tempo mantenendo un alone di mistero, nel farlo sottintendendo o omettendo il soggetto o l’oggetto ma senza lasciare ambiguità semantiche: e su questo non ci sono trucchi o regole, si può solo leggere molti gialli e mistery e poi scrivere molto facendo rileggere a più persone di diversa estrazione. Ma qui mi fermo, perché stiamo trattando livelli ben oltre quelli che pratichiamo nel corso, livelli in cui le opinioni divengono talmente soggettive da non poter applicare metodi o regole fisse.»
Quindi, quando incapperete in qualcuno di questi “tombini”, dei quali questo è solo un possibile esempio, non pensate di aver fatto il passo più lungo della gamba; sappiate invece che è segno che il vostro modo di scrivere si è evoluto, e di molto, per cui necessiterete di un tipo di “apprendimento” diverso (e per certi versi più complesso e approfondito) di quello che avevate affrontato fino a quel momento.
Buon divertimento!
A.Z.
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