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In certi giorni accadono incontri memorabili, come trovare un libro usato su una bancarella al mercato mentre stai tornando a casa. Lo vedi e sai che è speciale. Ti guarda, e non è la copertina che ti colpisce, nemmeno il titolo, è proprio lui, il libro, che ti attrae come se chiamasse proprio te. Riconosci che si tratta di una sensazione rara, di quelle che si fanno sentire all’improvviso, e sai che difficilmente potrai resisterle.

Sarà capitato di sicuro anche a te. Inutile tentare di ignorare certe sensazioni: nessuna scusa, nemmeno la fretta e i mille impegni di cui occuparti potranno distrarti: in quei momenti devi scoprire quale segreto si cela fra le pagine di quel libro.

Io mi sono fermata subito. Ho deciso che l’avrei comprato ancor prima di toccarlo. L’ho consultato solo perché avevo dei minuti in più, giusto una manciata. Si intitola Tajimara, l’autore è Juan García Ponce. Mi ricorda qualcosa questo nome, penso; è yucateco, fosse ancora vivo avrebbe novantun anni.

J. García Ponce è considerato il padre della Generación de Medio Siglo (cioè, di quegli scrittori messicani che hanno cominciato a essere conosciuti a metà del ’900, da Carlos Fuentes a Sergio Pitol).

Apro a caso. Funziona sempre così con i libri che decido di acquistare: se trovo una frase che mi piace, che mi parla, allora lo compro.

“Costruiamo tutto con l’immaginazione e siamo incapaci di vivere la realtà semplicemente. Ricordo la scalcinata e antica casa a Tajimara, lo sbocciare dei meli e dei fichi, la volontaria confusione dei quadri di Julia e Carlos e il vuoto dei pomeriggi senza Cecilia”: è la stessa frase che trovo in quarta di copertina. Mi piace. La vedo, la vedo quella casa e anche i quadri.

In un attimo decido che mi piacerà, la percezione è nettissima e ciecamente mi fido del mio istinto.

Appena arrivata a casa poso la borsa sul tavolino, mi accomodo sul divano e inizio a leggere. La pastosità dei colori, questo mi colpisce subito. Ponce dipinge! Le parole sono solo un pretesto che usa per condurti da qualche parte. Le adopera sapientemente per allestire una scena e di colpo ti ci ritrovi dentro. Prepotente e delicato allo stesso tempo manifesta subito le sue intenzioni: è di te che voleva parlare con la scusa di sé, e della storia che ha inventato, in cui si muove una donna che probabilmente non esiste.

Leggi, vedi, ti sposti nel racconto e hai la conferma: Ponce scrive perché ama stupire, adora costruire intorno a te la sensazione di casa, diventi da subito suo ospite perché ti mette a tuo agio, completamente.

Ti afferra per mano dolcemente e ti accompagna per tutto il tempo portandoti in fondo, fino all’ultima pagina, con sé. Lo puoi percepire sempre accanto, è una presenza discreta, rassicurante, ti indica dove guardare, come vedere, senza insistere quando il tuo sguardo si posa altrove. I colori sono la sua voce, li usa per sedurti e sa che resterai senza scampo; senza abuso né violenza lui esulta. Gode mentre ti accompagna nel cuore del suo palazzo narrativo ed è così gentile da lasciarti dedurre che sia solo una delle sue abilità. Fra i corridoi della sua dimora, quella che divide con Mario e nella quale incontra l’amore impossibile di Cecilia, ti sentiti padrone e custode. Ponce scrive con passione e costruisce un mondo delicato e gradevole che impari ad amare e comprendere; ne colora vivacemente ogni inquadratura.

Il suo amore per la pittura giunge da lontano ― suo fratello Fernando era pittore ― i colori della sua tavolozza li prende in prestito da esperienze che conosce bene. Forse la sua malattia ― Ponce soffrì di una patologia degenerativa che gli impediva il movimento ― gli offre un punto di osservazione privilegiato rispetto alla vita; amabilmente usa la sua fine fantasia per gestire compensazione e sublimazione.

Non finisce mai di ripetere che tutto è immagine, e questa credenza lo porta a dipingere attraverso il testo. Lui stesso dice: “nella scrittura tutto è fisso; nella vita tutto si muove”.

Per Ponce il segreto resta trasformare tutto in immagine: “Il senso della storia è il meno; mentre la scrivevo, avevo soltanto presente l’immagine di Cecilia”.

In Tajimara emerge l’esaltazione dell’archetipo femminile che gli occorre per creare Cecilia, lo strumento che traghetta la Donna in scena, dove egli sceglie di elevarla al di sopra delle altre forme, degli altri colori.

Ponce sceglie alcune pagine in particolare per portarti a conoscerla: ti avvicina così tanto alla sua personalità che puoi toccarla, percepirla, sentire il calore della sua pelle. Poi ti sposta fra le pieghe del racconto e ti conduce a osservare le sfumature con cui ogni dettaglio è stato strutturato per poi scomparire, come è il destino di Cecilia. A decomporsi sarà la sua immagine fugace “di bambina fragile, assurda, timida e sfacciata, esasperante, impossibile, esigente e debole, sempre sorprendente e disperatamente indipendente, inaccessibile, così difficile da penetrare e così squilibrata…” verbalizzata su carta, a testimoniare un accaduto composto di incontri senza futuro che illuminano la vera storia di cui Ponce desidera narrare: la relazione fra Julia e Carlos, fratelli appassionati che nascondono un segreto che salta fuori con una tale naturalezza che ti chiedi se poi fosse davvero un segreto…


CATERINA CIVALLERO Consulente alimentare, facilitatrice in Psicogenealogia junghiana, scrittrice

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