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Negli ultimi tre o quattro anni mi capita sempre più spesso che amici scrittori, poeti, editori, artisti delle varie arti, mi chiedano di scrivere una presentazione, una critica, una recensione o una prefazione alla loro opera artistica, alla loro pubblicazione, al loro libro.

Ogni volta, a queste lusinghiere richieste, una riservata discrezione mi sopraffà, scatenando una resistenza a scrivere quello che non ritengo d’essere in grado di fare da un punto di vista che possa risultare privo di tutte le contaminazioni culturali delle quali sono al contempo forgiato e vittima. Per natura sono ultra-severo con me stesso, su tutto quello che faccio o ho fatto. So per diretta esperienza, vissuta negli anni della mia adolescenza fino all’età di giovane adulto, che questa innata severità, se proiettata al di fuori di me, può essere molto pericolosa e non ha fatto altro che conquistare gratuite inimicizie e motivate antipatie.

Quindi, con tutta la gentilezza che sono in grado di esprimere, succede così che ringrazio con riconoscenza tutti gli artisti che mi hanno onorato con la loro richieste e prometto loro che mi gusterò l’opera restituendo un mio personalissimo riscontro emozionale, più che un’analisi critico-culturale o una valutazione artistico-accademica.

È per questo motivo che, quando Caterina Civallero mi chiese se fossi stato disposto a scrivere una presentazione al suo libro “Clessidre senza sabbia”, anticipandomi telefonicamente il tema che trattava, risposi con un entusiasmo mascherato da una non ben celata riserva di fare davvero quello che mi era stato chiesto e che timidamente avevo promesso.

Dopo aver letto con molta attenzione il “racconto” di Debora Pignata, la mamma di Alice, ed essermi lasciato trascinare dalla parte emozionale di me lettore, i miei saranno degli “spunti di riflessione” intimi, personali, generati da un racconto di poco meno di trenta pagine, potente, disperato, disarmante, per certi versi fatalista, di un fatalismo mai dichiarato e che ha una connotazione razionale, il ché, per certi versi, è paradossale.

La mia formazione accademica e professionale di Psicologo Clinico mi ha fatto ben conoscere il gravissimo problema dei disturbi del comportamento alimentare, dell’altissima incidenza nei giovani e giovanissimi della popolazione occidentale del Ventunesimo secolo dove il consumismo, la globalizzazione e l’immagine “perfetta” hanno inesorabilmente preso il posto di tutti quelli che sono stati gli indiscussi “valori” dei loro nonni e padri fino alla metà del secolo scorso, il Novecento.

Io non so, né riesco a immaginarlo, come ben scrive Debora Pignata nel suo racconto, qual sia il dolore che un genitore possa provare dopo la morte di un figlio: «È difficile da spiegare il dolore di una madre che perde un figlio; solo chi lo ha provato può comprendere davvero ma non ho voglia di spiegare come sto: è faticoso. In questi primi giorni senza di te tutto sembra complicato come mai lo è stato…».

Queste parole di Debora che senza alcun dubbio sono di disperazione estrema, già dalle prime pagine pugnalano il lettore al cuore che sente improvviso il “senso di colpa” di coloro che sono sopravvissuti ad una immane tragedia che ha portato via per sempre familiari, amici e conoscenti e che tecnicamente viene definita come “sindrome del sopravvissuto”. Quello che ho pensato è stato semplice e annichilente: in effetti è vero, non posso capire questo dolore!

Ma perché una mamma che ha vissuto quello che racconta Debora sente il bisogno di scriverlo, di tirarlo con forza fuori dalle profondità della sua anima, di renderlo partecipe a chi come lei vive o ha vissuto lo stesso problema, di ripercorrere i giorni, i momenti, gli attimi di vita, di gioia, di rabbia, di emozioni contrastanti con la propria bambina che ha deciso di intraprendere una strada che ha un solo e inesorabile destino? «Cosa può fare un genitore di fronte a un figlio che rifiuta di alimentarsi? Nulla, si può fare nulla. Insistere è la via peggiore, cercare una mediazione risulta inutile, arrabbiarsi è dannoso, scappare è inattuabile. L’anoressia è una bestia feroce che si è nutrita delle nostre vite: la tua l’ha fatta a pezzi e della mia non restano che brandelli. Questo vorrei spiegare, quando piango e dico che non so se riuscirò a sollevarmi dal mio dolore; e mentre lo penso ho il terrore di dimenticare, e mi trovo nuovamente prigioniera di una sofferenza angosciante che mi stritola da dentro.»

Debora racconta che con la figlia Alice, bellissima, intelligente, sensibile, colta seppur giovanissima, il suo era un rapporto simbiotico, reciproco, di un dare e avere senza alcuna condizione, un amore potente come può essere potente l’amore di una madre per la propria figlia, e di una figlia verso la propria madre che ha saputo ergersi, nei momenti di tempesta oceanica, a faro sicuro e appiglio salvifico.

I “sensi di colpa” sono quelli che vive il lettore di questa storia, ma sono anche quelli che perseguitano tutti i genitori dal momento in cui mettono al mondo i loro figli, e si scatenano dentro la loro testa quando pensano se stanno facendo tutto quello che dovrebbero fare, se hanno fatto bene o hanno sbagliato qualcosa, se sono stati dei buoni esempi di vita, se hanno deluso i loro figli, se sono riusciti a dare tutto quello che era necessario dare loro, se… se… Ma il senso di colpa rimane e rimarrà per sempre, in un genitore, anche senza alcun motivo e senza alcun reale dolo.

Forse sta lì il cuore di questo racconto disperato: i sensi di colpa! I sensi di colpa di non essere riusciti a proteggere il proprio figlio, quelli di non avere fatto tutto quello che occorreva fare, quelli di non essere stati sufficientemente determinati, di non avere capito in tempo quando lo si poteva ancora salvare, quelli di non avere protetto il proprio figlio dalla tragedia, dal dolore, dalla sofferenza, dalla morte.

Ma poi mi vengono dei dubbi, e non so perché.

Forse, invece, si vuole donare al proprio figlio una immortalità letteraria, attraverso la parola, attraverso la scrittura? «Per tener vivo chi non c’è più bisogna ricordarlo e parlarne: solo così gli si regala il dono dell’immortalità. Anche questo libro sarà uno strumento per far vivere Alice, nonostante Alice sia altrove. E così, non avendo nessuna certezza che un gesto disperato possa farmela incontrare di nuovo, sono tenuta a stare qui. Ma certi giorni è davvero atroce!»

E qui altri dubbi prendono il sopravvento sulle mie emozioni di lettore.

Scrivendo queste ultime parole mi viene in mente una lezione tenuta dal mio professore di psicologia clinica durante un seminario universitario, che raccontò di quando Sigmund Freud andò negli Stati Uniti per tenere una serie di conferenze sulla psicoanalisi che a quei tempi era divenuta la novità scientifica più importante e rivoluzionaria della psichiatria e della medicina di inizio Novecento. A conclusione di una delle conferenze tenute in un’importante università statunitense, una donna si avvicinò alla cattedra del Professor Freud, gli disse che lei era una mamma e gli chiese come doveva comportarsi con i suoi figli perché ogni volta che diceva o faceva qualcosa per loro, poi sentiva sempre degli strani sensi di colpa generati dal dubbio che avesse sbagliato qualcosa o non avesse fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare. Sigmund Freud ascoltò con attenzione la donna e quando questa ebbe terminato di parlare le rispose: “Signora, faccia quel che vuole, tanto con i suoi figli sbaglierà sempre!”.

La risposta apparentemente superficiale e sibillina nasconde però una profonda verità e una saggezza di infinita potenza. Nessuno può dire a una mamma come deve comportarsi o cosa deve o non deve fare per i propri figli, né ci sono delle formule o delle strategie che evitino a priori di commettere degli errori che possano sottrarre il genitore dai sensi di colpa. È impossibile ottenere questo risultato! E qualsiasi cosa possa fare un genitore, il figlio − dall’età infantile fino all’età di giovane adulto − leggerà sempre cose diverse da quelle che sono nelle intenzioni della madre o del padre.

La modalità che veramente funziona con i propri figli, e che certamente ritroviamo nel racconto di Debora, è la coerenza nelle azioni, nei comportamenti, nelle cose che si dicono e nelle cose che si fanno. Solo quello ha un potere devastante e incontenibile che penetra l’anima e la natura dei figli. Le azioni e l’esempio di vita dei genitori, se sono coerenti, lasciano solchi profondi che non potranno mai essere cancellati dai figli e che faranno da guida per il loro futuro.

Questa coerenza impregna il racconto fin dalla prime righe, viene trasmessa al lettore, e certamente è stata portata con sé da Alice come lascito immortale di sua mamma Debora.

Il libro:

Caterina Civallero, “Classidre senza sabbia”, 2022

https://amzn.eu/d/bFpJRxE

https://www.amazon.it/stores/CATERINA-CIVALLERO/author/B07S3KHQ2K

Andrea Giostra

https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/

https://andreagiostrafilm.blogspot.it

https://www.youtube.com/channel/UCJvCBdZmn_o9bWQA1IuD0Pg

https://www.amazon.com/stores/ANDREA-GIOSTRA/author/B0CRB66K6R

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dello stesso autore dell’articolo, il Saggio, che si legge gratuitamente online, su “Femminicidio e Narcisismo Patologico…”:

LINK DI GOOGLE BLOGSPOT DAL QUALE LEGGERE GRATUITAMENTE IN DIGITALE IL SAGGIO “Femminicidio e Narcisismo Patologico…”:

https://andreagiostrafilm.blogspot.com/2023/12/FemminicidioeNarcisismoPatologico.html

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