TRATTO DA: MADAGASCAR- UN VIAGGIO PER LIBERARE DUE CUORI di Caterina Civallero

CAPITOLO TRE

   Sull’annuncio in bacheca c’era scritto: “CERCO AIUTO SKIPPER ESPERTO PER I MESI ESTIVI: RIVOLGERSI IN CAPITANERIA”. Certamente non rispondevo a tutti i requisiti richiesti, ma avevo appena compiuto diciannove anni e il mare lo conoscevo abbastanza bene. In capitaneria mi indicarono un brigantino in fondo alla darsena: “lo trova lì sotto: ha una tuta gialla”.

Era girato di schiena quando arrivai. Attesi il momento che mi parve più adatto e gli domandai: “È lei che cerca uno skipper?”. Mi guardò con l’aria di chi vuol scoppiare a ridere e con tono serio mi rispose: “so che cercano un gabbiere[1] di palmetta più avanti…” si girò e continuò a lavorare. Non sapevo cosa fosse un gabbiere di palmetta, anche se era evidente che si trattava di una presa in giro, e il brigantino era l’ultima barca in cantiere: dopo c’era solo il muraglione della diga foranea. Decisi di rimanere lì: osservavo i suoi movimenti affascinato da come accarezzava il ventre dell’imbarcazione con le mani. Dopo venti minuti si girò verso di me: “Al posto di star lì a perder tempo” tuonò “prendi un pezzo di carta vetro e inizia dalla prua a carteggiare, sempre che tu sappia dov’è la prua”.

È difficile crederlo, ma c’era un che di gradevole nel suo artificioso tono burbero. Lavorammo per sette giorni studiandoci a vicenda. Alla fine la barca era liscia e perfettamente sverniciata. Mi porse una banconota: ”Per il tuo lavoro. Lunedì iniziamo con l’antivegetativa se non piove. Portati dei guanti”.

Capii di non essere più sotto esame quando smise di chiamarmi “Vieni qua” e iniziò a usare il mio nome.

   Al termine del primo mese di lavori di manutenzione avevamo varato il brigantino, alato e fatto manutenzione ad altre quattro vele. Un mattino mi mise uno spazzolone in mano: ”Vai al pontile nove. Li vedi quei tre Jeanneau con il copriranda blu?” mi fece segno con il braccio teso indicando tre barche a vela immacolate. Annuii. “Bene, bisogna sistemarle: domani escono. Dagli una bella strigliata. La gomma e già in banchina”.

Rimasi tutto il pomeriggio con i piedi a mollo nell’acqua a insaponare spazzolare e sciacquare il tek. Quando ebbi finito il lavoro lui se n’era già andato.

   Ci avevo pensato tutta la notte. Temevo che avrei passato il resto della vita a dipingere e lavare barche. Forse il posto da magazziniere che Gino, il mio vicino di casa, mi aveva proposto non era poi così male. Arrivai prima di lui: lo aspettai davanti alla capitaneria. Gli avrei detto grazie, me ne vado, ho trovato un altro lavoro.

   Lo vidi venire verso di me con un giubbotto rosso in mano. “Mettiti questo, dovrebbe essere della tua misura”. Venti minuti dopo eravamo sul quarantadue piedi in mezzo al golfo. Mi mise al timone e disse “Bene, adesso vediamo cosa sei capace di fare”.

   Mi insegnò tutto di quel mestiere. Ogni più piccolo trucco. Mi offrì la sua esperienza e la mise a mia disposizione. Ancora oggi a distanza di nove anni riconosco che gli devo davvero molto. Mi insegnò a navigare con scioltezza anche con sei persone a bordo: imparai l’arte della diplomazia e a parlare nel momento giusto dicendo la cosa giusta.

   Con lui potei conoscere il carattere imprevedibile del mare aperto, comprendere la sua incoerenza e ad accettarla senza sottovalutare la sua pericolosità. Mi aiutò a gestire la paura e a trasformarla in risorsa; dai suoi modi apparentemente distaccati compresi che il silenzio è il miglior modo per aiutare qualcuno. Diventai più forte e preciso; mi sentivo addosso una nuova pelle. Fu come avere un secondo padre, severo ma protettivo. Apprezzai quel dono del cielo: Giorgio mi diede ciò di cui avevo veramente bisogno: credette in me quando io non sapevo più in che cosa credere, e mi consentì di iniziare un nuovo capitolo della mia vita. Incoraggiò i miei studi e si offrì di anticipare le spese d’iscrizione all’Università.

Con i guadagni della prima stagione rimborsai il mio debito e potei andare a vivere da solo in una piccola casa che in seguito acquistai.

   Mi dimentico presto della notte trascorsa in tenda e tutti i pensieri e le paure, i timori e i dubbi che avevo alla partenza se ne vanno non appena il sole fa capolino da dietro le nuvole, lo sto tenendo d’occhio da quando con il Dottor Felici abbiamo lasciato il campo a bordo dell’unica jeep a disposizione per gli spostamenti.

   Quando pensi a una cittadina di trentamila abitanti ti aspetti di vedere palazzi, negozi, cartelli, insegne pubblicitarie, semafori. Osservandomi intorno ho come unica certezza di essere a Fort Dauphin le due strisce di terra che costeggiano la strada asfaltata che ho percorso ieri sera al mio arrivo. È animata dalla presenza di tante persone che camminano scalze; gruppi di donne sedute per terra accanto a miseri prodotti del loro orto aspettano senza troppa convinzione un acquirente, mentre uno stuolo di bambini gioca in mezzo alla polvere. In piccole baracchette di legno, protette da una minuscola lastra di plexiglas, sono esposte frittelle e baguettes. Forse fra qualche giorno con un po’ più di fiducia ne assaggerò una.

   Felici mi guarda e sorride; questa mattina è taciturno, e a me sta bene. Mi piace stare in silenzio e parlare con i gesti, con gli sguardi, a pelle. Sembra perso nei suoi pensieri e non ho intenzione di distrarlo.

[1] Gabbieri di palmetta, nell’antica marina da guerra a vela era il nome generico dei marinai destinati a lavorare sull’alberatura, alle ancore e a tutti i lavori prettamente marinareschi. Era la parte migliore dell’equipaggio. Oggi, sulle navi moderne da guerra, si chiamano nocchieri.

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CATERINA CIVALLERO saggista e scrittrice

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