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La mia amica e collega scrittrice Caterina Civallero, durante i corsi di scrittura creativa che tiene on-line, mette spesso l’accento sulla capacità di sintesi; capacità che alcuni non coltivano assolutamente, producendo testi densi di prosopopea, logorroici, o nonsense a volte involontariamente divertenti. A mio modesto avviso, tale capacità, che per alcuni può essere un “dono” (lei usa definirlo “il dono della sintesi”), è indispensabile, o almeno auspicabile, in poesia e nei testi per canzoni: l’abilità di dire tanto usando poche parole differenzia la mera bravura dal talento. Tutto questo mi è sorto alla mente ieri, mentre dialogavo su WhatsApp nel gruppo dedicato alle persone che hanno partecipato ai nostri corsi: l’argomento era la dipartita di Franco Battiato.

Un personaggio di tale levatura non può certo lasciare indifferenti: c’è chi ama i suoi lavori in modo smisurato, chi non li sopporta e li denigra, chi semplicemente li snobba magari perché non li comprende o non li “sente” nelle “proprie corde”: tutto pienamente legittimo e lungi da me, in questa sede, scrivere un’apologia o l’ennesimo barboso coccodrillo[1], nonostante il mio apprezzamento per la sua arte.

Pensando al concetto di sintesi, inevitabilmente, mi balzano alla mente i miei due autori preferiti: Fabrizio De Andrè e per l’appunto Franco Battiato. Così diversi (seppur con molto in comune) nel loro modo di esprimersi, ma entrambi maestri nella capacità di esprimere concetti profondi e complessi usando brevi frasi che lasciano il segno. Chiaramente, per semplicità e per non dilungarmi, non terrò conto (ingiustamente, me ne rendo conto) del fatto che molti dei loro testi sono stati scritti da altri o in collaborazione con altri: basti solo pensare, nel caso di De Andrè, agli adattamenti dalle magistrali parole di Brassens[2] e Brel, o alla collaborazione fra Battiato e Manlio Sgalambro[3]; ciò nulla toglie al talento di questi due artisti né a quello dei loro collaboratori o ispiratori.

Nel brano Atlantide di Battiato c’è un verso di poche parole che ho sempre apprezzato: “…e non sopportarono più nemmeno la felicità!”. Queste poche semplici parole descrivono in modo esemplare tutto ciò che è descritto nel testo della canzone, l’ascesa di quella grande civiltà, la seguente decadenza dei costumi e l’arroganza del sapere che l’avrebbe portata all’autodistruzione; e non ultimo il parallelismo con l’attuale civiltà occidentale. Ovviamente per percepire e godere appieno di certe sottigliezze è necessario anche possedere un briciolo almeno di sensibilità poetica, e la capacità di “leggere fra le righe”, di andare oltre il senso letterale di ogni singola parola.

Sono certo di non dissacrare il personaggio facendovi notare l’analisi, per così dire “tecnica”, dell’eleganza, completezza e bellezza di questo verso, tratto dal brano L’ombra della luce, che, detto per inciso, in alcuni arrangiamenti si conclude con una appena percettibile “Om”, trasformandosi in un vero e proprio mantra buddista:

“Perché la pace che ho sentito in certi monasteri

o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa

sono solo l’ombra della luce”.

Questo “inciso” esprime tutto il senso di un Aldilà mistico, comprendendo tutte le filosofie di vita degli esseri umani senza giudicarle (il primo verso fa riferimento agli spiritualisti e contemplativi, il secondo ai materialisti); descrivendo in modo tenero ed elegante ma senza giri di parole un orgasmo (fisico o estatico che sia) nel secondo verso; e sublimando tutto ciò che ha da dire nel più profondo, spirituale e, permettetemi, azzeccato, degli ossimori. Perché l’esistenza, come la vita e la morte, è di per sé un ossimoro.

Tre versi che descrivono ciò che le religioni e le filosofie hanno impiegato decine di secoli e tonnellate di pagine e rotoli, per farlo: solo un’anima molto evoluta e sensibile, forse un bodhisattva[4], ma al tempo stesso padrona della tecnica creativa, poteva riuscirci; qualunque opinione si abbia al riguardo, occorre riconoscerglielo.

Col metodo di comprensione della “cipolla”[5], si scopre che certi testi hanno significati più profondi e nemmeno tanto ermetici di come appaiano a prima vista. Facciamo un paragone con la scultura: il celebre brano La Cura, personalmente, lo vedo come una forma d’arte ellenistica (in un certo senso, ovviamente): ovvero una forma d’arte che “scolpisce” ciò a cui dobbiamo tendere, non ciò che siamo al momento. Al contrario di, ad esempio, Povera Patria, forma d’arte che assimilo alla scultura d’epoca romana: stile che rappresenta ciò che è, imperfezioni comprese.

Se proviamo a pensare a La Cura come a una dichiarazione che una cosiddetta divinità rivolge all’umanità, se ne intravede il senso olistico, sovrumano: dichiarazioni utopiche, in questa vita, sia per gli umani che per gli enti divini. Ma come un ramo di parabola tende ad avvicinarsi sempre più al suo asintoto, anche se non lo raggiungerà mai (forse, mai), ecco l’invito a tendere a un amore quasi divino pur sapendo che occorreranno eoni di incarnazioni per arrivarci.

Indubbiamente un testo di una profondità unica.

Il lama che seguivo alcuni anni fa amava farci notare che anche l’Impermanenza[6] è impermanente: un modo elegantemente sintetico per dire che anche i momenti difficili e la morte stessa sono stati che non durano in eterno. Per chi ci crede, è piuttosto incoraggiante.

A.Z.

[1] In gergo giornalistico viene chiamato “coccodrillo” l’articolo che si tiene già pronto, magari da anni, per l’eventualità di dover “andare in macchina” alla svelta quando muore un personaggio famoso.

[2] https://auralcrave.com/2020/07/24/georges-brassens-il-francese-che-cambio-anche-la-musica-italiana/
https://www.treccani.it/enciclopedia/jacques-brel_%28Enciclopedia-Italiana%29/

[3] http://sgalambro.altervista.org/

[4] Nella filosofia buddista il “bodhisattva” , detto in poche parole, è colui che terminato il ciclo di rinascite e raggiunta l’illuminazione, rinuncia volontariamente a entrare nel Nirvana e torna a reincarnarsi per spirito di compassione nei confronti degli esseri che devono ancora completare il loro percorso.

[5] Proprio come gli strati di una cipolla, è possibile sviscerare i significati di un testo su diversi livelli di comprensione.

[6] Nella filosofia buddista tibetana la dottrina dell’impermanenza di tutte le cose e la vacuità sono due concetti basilari.

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