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Tratto dal mio libro Certe cose capitano solo a te

Restai di stucco quando mi diede il primo ceffone: disse che era per il mio bene.

Ero arrabbiata per le immagini che avevo trovato sul suo cellulare mentre cercavo il numero della tintoria. Non avevamo password né sul computer né sullo smartphone, condividevamo tutto con la consapevolezza che non avevamo nulla da nascondere, o almeno così credevo.

Quella volta chiesi una spiegazione e il suo ghigno serafico che tentava di minimizzare la cosa mi dava il voltastomaco.

“Sei esagerata” aveva blaterato. Non potevo credere a ciò che avevo visto e nemmeno alle sue parole. Di colpo Evan divenne un mostro e non avevo alcuna intenzione di tergiversare, doveva darmi una spiegazione.

Il segno delle cinque dita mi rimase sul volto tutta la sera.

Restai in silenzio rannicchiata in un angolo del letto a chiedermi cosa potevo fare.

Solo due anni prima avevo provato un’immensa soddisfazione nel lasciare tutto per inseguire il mio sogno insieme a lui. Ero partita chiudendo lo studio con l’intento di non riaprirlo: avevo dato disdetta dei contratti delle utenze e poiché non avevo avuto la possibilità di pianificare il mio trasferimento avevo pagato per intero sei mensilità di affitto. Nessuna penale mi sembrava adeguata alla conquista che avevo fra le mani.

Ero partita per gli States certa che in quella parte del mondo avrei trascorso il resto della mia vita, ed ero profondamente convinta di aver esaudito ogni sogno più intimo. Evan era tutto per me, un amico, un amante, un compagno; quelle foto mi sbattevano in faccia la verità: Evan era un maniaco, e probabilmente aveva commesso una serie di reati che a elencarli ci avrei perso la testa.

So che sembra inammissibile, ma ammettere i propri errori quando sei convinto di aver toccato il cielo con un dito richiede molto tempo. Ci vollero alcuni mesi prima che la devastazione colpisse le radici della nostra relazione. Ero convinta che un bravo psichiatra avrebbe potuto aiutare Evan a uscire dai guai in cui si era cacciato e lo spingevo a reagire per evitare che avesse bisogno di un avvocato.

Una sera mi trovai a stringergli i bicipiti così forte da conficcargli le unghie nella carne. Aveva alzato le mani e mi aveva spinta contro la ringhiera del pianerottolo. Piangeva e mi chiedeva scusa. Io gridavo come mai avrei creduto di saper fare minacciandolo che se mi avesse ancora usato violenza lo avrei denunciato.

Eravamo alla deriva, se non fosse stato per il fatto che lo amavo più di me stessa avrei detto basta a quell’orrore molto prima, invece l’agonia continuò fino a quando non ci fu più nulla da perdonare e nessun sentimento a cui aggrapparsi.

Gelosia e morbosità, questi erano diventati i condimenti della nostra relazione. Qualche coincidenza versò veleno su ciò che era rimasto intatto e restammo invischiati in una storia da cui era possibile soltanto scappare.

Quando Evan restò a corto di stimoli ne trovò di nuovi, alcuni dei quali erano inaccettabili per la mia educazione.

Fu sorprendente stare con lui, anche quando era insopportabile resistere il peso della discordia fare l’amore era così intenso da non sembrare vero; Evan aveva un milione di modi per stupirmi e riuscì a farlo fino alla fine.

Il giorno in cui me ne andai risposi a un impulso inversamente proporzionale alla pazienza con cui tentai di restare e mai una mia decisione fu presa con tanta saggezza.

Venir via da New York senza chiedere spiegazioni e fare in modo di non fornirne alcuna fu per noi una reciproca scelta di rispetto per quanto di sacro avevamo vissuto amandoci come se la nostra storia non avesse mai dovuto finire.

Ero stata cieca di fronte ai suoi malumori, sorda ai suoi continui richiami di attenzione scambiati per le frivolezze di un attore che non si era ancora consacrato all’immortalità perché ancora troppo ingenuo da credere che un giorno l’avrebbe raggiunta. Bambini istruiti per obbedire all’inganno, questo eravamo stati, e io non ero meno colpevole di lui.

Non avrei mai potuto essere felice al suo fianco e la sua aggressività confermava che questo lo sapeva anche lui. Le notti di passione avevano lasciato spazio al disprezzo e la pazienza si era trasformata in sopportazione; fu folle sperare che gli ostacoli iniziali potessero essere superati, di fronte all’incoscienza nessun elisir è capace di cancellare i segni del disincanto.

Quando Erik decise di raggiungermi a Portland dovetti riconoscere che il mio fratellone minore era diventato davvero un uomo. Mi guardò negli occhi, mi fissò a lungo e senza chiedermi spiegazioni mi disse: “Ti trovo bene Hélène, sei sempre più bella”.

Non era vero affatto, ero uno straccio, lo avrebbe visto chiunque che ero smarrita e che stavo proprio male.

Eppure lui non mi chiese nulla e si fermò a complimentarsi sulla scelta dei tessuti che avevo adoperato per rivestire i divani e le finestre.

Mi aspettavo le tipiche frasi come te l’avevo detto, era da immaginarselo, e invece nulla, non disse e non chiese nulla, un vero gentiluomo.

Passammo il tempo a ridere sull’equivoco riguardo Portland. Non mi fossi accertata che stesse davvero venendo in Oregon avrei dovuto andare a recuperarlo nel Maine dall’altro capo degli States. La stessa cosa stava accadendo a me, anzi fu proprio per via del fatto che avevo capito male che mi trovavo in Oregon.

Quando vivevo a Waitangi mi affidarono un nuovo progetto a Portland, ero felice come una Pasqua. Poche ore dopo avevo già i biglietti per partire. Avevo comprato un biglietto anche per Bobby, avrebbe viaggiato con me. Quando scoprii che il contratto che mi avevano proposto riguardava la costruzione di un viadotto a Portland in Nuova Zelanda, a trecento chilometri da dove vivevo, in un paese dove c’era il nulla immerso nel niente, mi caddero le braccia. Il mio istinto era sempre stato più veloce della ragione e non avevo mai sbagliato a seguirlo, anche quando apparentemente mi aveva portata fuori strada.

Quel disguido segnò l’inizio del mio nuovo trasferimento. Per nulla al mondo mi sarei persa la sorpresa di scoprire cosa mi avesse spinta a comprare due biglietti aerei per l’Oregon.

E così lasciai la terra dei Māori e approdai nella città che deve il suo nome a Francis W. Pettygrove, cacciatore di pellicce del Maine che nel 1829 lanciò in aria una monetina vincendo contro il concorrente Asa Lovejoy la possibilità di dare alla nuova terra, appena insediata, il nome della sua cittadina d’origine.

Ero felice che un provvidenziale equivoco bizzarro avesse svegliato la mia voglia di reinventarmi.

Caterina Civallero

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